Prompting,
partenza,
IA.

4000 grammi di materia prima che ricadono tutti sul collo. 12 muscoli contorti, disposti uno sopra l’altro, che lavorano all’unisono per sostenerne il peso e dare alla testa un posizionamento. Se cerchi il centro dell’abito che mamma ti ha ritagliato su misura per l’anima che lo indossa, metti le mani sul collo, non lo sguardo sulla pancia. È il ponte che la collega al resto del corpo: in quel tratto passa tutta la tua vita, in un senso e nell’altro. Se crolla, viene giù tutto.

Anche perché poco più giù, al collo è collegata la colonna vertebrale che nel corso dell’evoluzione è diventata a forma di S: tre curve non pericolose per dare una convessità al centro, una concavità sopra al collo, l’altra sotto al fondo schiena. Quando ci sediamo si annullano e la curva diventa una sola e pericolosa: una grande C come quella del gorilla. Se ti siedi annulli tutta l’evoluzione della specie.

Da Homo erectus a Homo sedens, il rischio è che anche l’intelligenza si sieda sugli allori degli artifici tecnologici. Quando la parola intelligenza si alza sopra i salotti digitali della socialcrazia anche l'ultimo raggio di ragione si abbassa: è il momento in cui i nani ci montano sopra per apparire giganti. A preoccupare allora non è tanto la stupidità naturale, quanto la sua versione peggiore: la pigrizia mentale dell’intelligenza in outsourcing.

Come una lampadina che si illumina, invece, ha bisogno di un corpo dove avvitarsi e lasciare che passioni, memorie, sentimenti lascino a loro volta il segno in quel risultato di cromosomi ben accoppiati che per il mondo digitale invece è un ostacolo. Quello che alimenta la forza motrice della democrazia è la corrente alternata di tolleranza e conflittualità. L’energia della democrazia si diffonde quando ogni suo membro può fare i conti in modo conflittuale con l'altro. Questo la differenzia dalla dittatura dove invece gli altri diventano una presenza indesiderata da sopprimere. Non dovrebbe quindi fare notizia l’assenza del me di ognuno di noi nella rete per fare spazio all’invadenza del digitale nel mondo.

L’uomo esiste, la macchina funziona. I corpi funzionano, ma esistono sempre di meno e l'idea di affidare i loro funzionamenti alle macchine non viene da miliardari stanchi del loro corpo, ma da un corpo d’armata di ricercatori che riversano la loro vitalità esploratrice sull'argomento. Così, una minoranza dell'umanità delega con coscienza alle macchine il funzionamento di parti del corpo e la maggioranza dei corpi accetta, così su due piedi, senza essere stata interpellata e ne fa uso senza neanche essere davvero cosciente.

La gara a dimostrare più intelligenza degli altri è sempre aperta. Con OpenAI ancora di più. Sono sprinter nel proporre a breve distanza l’uno dall’altro il prompt più evoluto agli utenti e maratoneti nel presuppore che sulla lunga distanza ci sarà più intelligenza per tutti. Ma a ben guardare, sotto sotto, più che intelligenza artificiale sembra intellighenzia digitale. Ha questo stile tutto insaponato, che scivola via in modo facile e molle nella società liquida, complice quella morbida schiuma distribuita ovunque sul corpo del testo e quel tensioattivo così ricercato nei laboratori scientifici e che strofinato al punto giusto emulsiona luoghi comuni, immagini stagnanti, parole candite in frasi glassate che fanno dire all’utenza: «Quanto è intelligente questa macchina!».

Che poi se Albert Einstein nel 1945 si pentì di avere fatto parte del Progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica – e dopo accadde quello che accadde – che cosa viene da pensare se oggi il dottor Geoffrey Hinton si pente di essere il padre di quella macchina? Non è ancora accaduto nulla, ma se Geoffrey Hinton si dimette da psicologo cognitivo e scienziato informatico del dipartimento di ricerca di Google Brain per sentirsi libero di informare il mondo sui pericoli e i rischi che sta correndo l’umanità, accadrà quello che potrebbe accadere? 78 anni fa Albert Einstein non arrivò a dire della bomba atomica quello che oggi Geoffrey Hinton dice dell’intelligenza artificiale: «È difficile pensare di impedire ai cattivi di usarla per cose cattive».

Da pioniere a catastrofista il passo è lungo 50 anni e inizia nel 1972 quando Geoffrey esce dall'Università di Edimburgo con un dottorato di ricerca in intelligenza artificiale e un'idea in testa. La chiama rete neurale, roba complicata eh, a cui nessuno crede: un sistema matematico che analizza dati per imparare abilità. «L'idea che questa roba potesse davvero diventare più intelligente delle persone era lontana. Pensavo che mancassero dai 30 ai 50 anni o anche di più. Oggi non lo penso più». Ma negli anni '80 è solo a quella roba che pensa e si trasferisce negli Stati Uniti pur di avere più opportunità di svilupparla anche grazie ai privilegi che può godere come professore.

Il guaio è che alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, in Pennsylvania, gran parte della ricerca sull’intelligenza artificiale è finanziata dal Dipartimento della Difesa. Geoffrey non vuole neanche un centesimo dal Pentagono: teme di fare la fine di quello che porterà in futuro soldati robot sul campo di battaglia. Si trasferisce allora a Toronto in Canada e nel 2012 insieme a due studenti, Ilya Sutskever e Alex Krishevsky, costruisce una rete neurale capace di analizzare migliaia di foto e identificare oggetti comuni come fiori, cani e automobili. Il progetto diventa pure una società, la DNNresearch Inc, che Google poi pagherà 44 milioni di dollari, ma che intanto porta alla creazione di tecnologie sempre più potenti: i chatbot ChatGPT e Google Bard.

«Andate a guardare come era cinque anni fa l’intelligenza artificiale e guardate come è adesso. Prendete la differenza e propagatela in avanti. È spaventoso». Nella rete di internet si impiglieranno ondate continue di foto, video e testi finti e gli utenti non saranno più in grado di distinguere il vero dal falso. Secondo Geoffrey toglierà pure il lavoro faticoso dalle mani dei lavoratori e il denaro dal reddito delle loro famiglie: la gente si troverà con l’acqua alla gola. Un danno per la società, non più drammatico però di quello che potrebbe accadere all’umanità se verrà concesso ai sistemi dell’intelligenza artificiale di generare il proprio codice informatico e di eseguirlo in autonomia. «Sarà il giorno» dice Geoffrey «in cui armi davvero autonome, i robot assassini, diventeranno realtà sul campo di battaglia».

Dall’intelligenza dei Big Data, la corsa delle Big Tech verso il Big Bang finale è partita e a estendere il campo di gara in tutta la sua drammaticità ci ha pensato lo scrittore Eliezer Yudkowsky con un articolo pubblicato lo scorso marzo dal Time. Una volta si diceva che un computer non potesse sapere nulla se non glielo dicevi tu, oggi il rapporto sembra essersi ribaltato: le macchine possono arrivare a sapere migliaia di volte quello che conosciamo noi. «Il risultato più probabile di un'intelligenza artificiale che vada oltre quella umana» sostiene Yudkowsky «è che – senza tanti giri di parole – tutti sulla Terra moriranno. Non ho detto che è la cosa più remota: sto dicendo che è la cosa più ovvia che potrà accadere».

Andrea Ingrosso

Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.

© 2023 Mamy

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