Jack London.
Il venditore di cervello.

Divideva le buste secondo il peso. Le pesanti contenevano i racconti rifiutati, le leggere gli assegni degli editori. Dentro a volte ci trovava 5 dollari, altre volte 25, una volta addirittura 120: il compenso più alto che avesse mai ricevuto per un racconto. Il consenso dei lettori in quel periodo lo metteva nel mirino con regolarità, la stessa che lui aveva iniziato a mettere molto tempo prima nella scrittura.

Scriveva tutti i giorni, dalle 1000 alle 1500 parole, e molto di quello che scriveva ora trovava spazio sulle pagine delle riviste. Così, un giorno si sentì legittimato a chiedere alla casa editrice Macmillan 150 dollari al mese di anticipo per un anno intero. Il libro da pubblicare era The people of the Abyss. Aveva convinto la Press Association di mandarlo in Inghilterra. Nell’East end di Londra si sarebbe travestito da senza tetto. In mezzo ai poveri avrebbe vissuto sulla strada e alla sera avrebbe messo sulla pagina quell’esperienza da vagabondo già vissuta sulla sua pelle.

Aveva 18 anni quando venne arrestato per vagabondaggio vicino alle cascate del Niagara, a New York. Due mesi prima aveva lasciato la sua casa a Oakland, in California. A bordo dei treni viaggiava senza biglietto, nascosto dentro i carri merce vuoti. Quando erano pieni si appiattiva sotto di loro a un pelo dalle rotaie, e dalla morte. «Ero al di sotto del punto di partenza, nella cantina della società, l’obitorio della nostra civiltà».

Cambiò mezzo di trasporto, ma non spirito il giorno che si imbarcò per 100 giorni a bordo della Sophia Sutherland. La goletta aveva 3 alberi e solcava il mare del Giappone a caccia di foche. Quasi tutti i marinai si bevevano lo stipendio alla fine di ogni missione e dopo le sbronze salivano su un’altra imbarcazione, pronti per un’altra spedizione. Solo Jack si teneva lontano dal bicchiere per poi comprare un cappello di seconda mano, alcune camicie da 40 centesimi, 2 completi di biancheria intima da 50 centesimi, un panciotto e un soprabito usati. Il resto del denaro lo lasciò per pagare i debiti della famiglia.

A casa avevano bisogno di lui, di una sua presenza fissa come il lavoro che si aspettavano facesse e non di saltuarie apparizioni come lo erano le sue retribuzioni. Provò in una filanda: azionare una macchina che avvolgeva il filo ottenuto dalla iuta era quello che gli veniva chiesto. Ma c’erano più possibilità di carriera in una centrale elettrica. Per arrivare a fare l’elettricista doveva prima attraversare un periodo di apprendistato: caricare carbone per 30 dollari al mese e 10 ore al giorno, compresa la domenica. Qualcuno un giorno gli fece notare che a quei ritmi stava lavorando per due operai. Disgustato lasciò il lavoro e tornò al vagabondaggio.

Era il 15 luglio 1897. L’Excelsior attraccò nel porto di San Francisco. La nave arrivava dall’Alaska carica di minatori. Raccontavano che nella regione canadese dello Yukon c’era un fiume pieno d’oro. La notizia presto girò nella città e nel giro di poche ore dal suo porto la migrazione partì verso il Nord. 100 mila persone lasciarono le case dirette alle acque del Klondike. In prima fila c’era Jack London. Da quel viaggio non si portò a casa sacchi pieni di pepite d’oro grosse come uova, ma come sempre un sacco gonfio di avventure estreme e di esperienze da narrare.

Cercò di venderle alle riviste in forma di racconti che aveva scritto quando era stato costretto a tornare. La morte del padre lo richiamò alle responsabilità di famiglia, visto che non aveva portato a casa nemmeno un grammo d’oro dal Canada. Iscrisse il suo nome alle liste di collocamento, si raccomandò ad amici e conoscenti, fece inserzioni sui giornali. Per raccogliere un po’ di denaro impegnò la bicicletta, l’orologio d’argento e l’impermeabile MacKintosh, l’unico ricordo che aveva del padre. Passare la vita a portare lettere agli abitanti del suo paese non rientrava tra le sue ambizioni, ma portare uno stipendio a casa era quello che gli imponevano le disperate condizioni familiari. Così, decise di sostenere l’esame per entrare alle Poste e fare entrare in casa 65 dollari al mese. Il suo fu il punteggio più alto, ma proprio in quel periodo la rivista californiana Overland Monthly lo informò che avrebbe pagato 7,50 dollari ogni suo racconto scritto per loro. Per questo ora sperava che la chiamata dalle Poste arrivasse il più tardi possibile, così da tentare la fortuna con la scrittura, adesso che qualcuno lo pagava per la sua.

A guadagnare iniziò molto presto. Aveva 10 anni quando distribuiva giornali nelle strade di Oakland per 3 dollari al mese. A 15 anni ne portava a casa 50 al mese per lavorare a una macchina che riempiva, chiudeva e sigillava le lattine di conserve di frutta e verdura. In quel periodo scoprì il luogo dove si conservano i libri. Iniziò a leggere di tutto e dappertutto: a letto, a tavola, quando andava e tornava da scuola, durante la ricreazione mentre i suoi compagni giocavano. Ma senza una bussola rischiava di perdersi nel mare aperto della conoscenza. Sarebbe stata poi la bibliotecaria Ina Coolbrith a indicargli la rotta da seguire.

Quelli che non seguì furono i suoi insegnanti: li trovava ripetitivi, senza esperienze di viaggi, con poche letture alle spalle. Così, lavorava per conto suo, soprattutto sulle parole, il vero tratto somatico dello scrittore. Su un pezzo di carta scriveva quelle che non conosceva e lo attaccava alle pareti della sua stanza. Oppure se lo metteva in tasca e lo sbirciava quando poteva. In questo modo imparava le parole da mettere sulla pagina e ricopiava a mano le storie di Rudyard Kipling per imparare a scriverle. Iniziava a scoprire che cosa fosse davvero la scrittura. «Non dovete essere voi a raccontare al lettore. No, no, no. Ma siano i vostri personaggi a farlo, attraverso i fatti, le azioni, le parole. Create atmosfere, infondete respiro e profondità alle vostre storie. Mettete questi ingredienti nei vostri racconti, ma da loro escludete voi stessi».

Alla fine, produsse il racconto A Thousand Deaths che l’editore H.D. Umbstaetter voleva pubblicare in 2 puntate sulla rivista Black Cat. Per 40 dollari London accettò che venisse spezzato come il pane in quel momento che non aveva neanche un pezzo di pane da mangiare. Quel denaro lo sottrasse dalla pietà altrui e tornò con le tasche piene al monte di pietà per recuperare la bicicletta, l’orologio e l’impermeabile del padre. Pagò tutti i debiti che aveva verso i droghieri e arrivò pure la notizia che ora poteva iniziare il suo lavoro alle Poste. Gli avrebbe tolto il tempo di scrivere proprio adesso che qualcuno credeva nella sua scrittura, ma avrebbe permesso alla famiglia di tornare a vivere con la dignità che meritava. Alla fine, Jack scelse sé stesso, non la famiglia: scelse di diventare scrittore. «Decisi di non vendere più muscoli, ma di diventare un venditore di cervello».

Quando a 19 anni aveva ripreso gli studi interrotti era riuscito a ottenere un lavoro serale nella scuola che frequentava. Era il suo modo di lottare contro la povertà e nello stesso tempo di inseguire il suo sogno. 14 anni dopo, la stessa povertà e lo stesso sogno li avrebbe disegnati addosso a Martin Eden il suo personaggio più autobiografico nel suo romanzo più famoso. Se lo ricordò alcuni anni dopo nella lettera che scrisse a sua figlia quando Joan stava per iniziare a frequentare la stessa scuola: «Ricorda, ti prego, che io ho scopato ogni stanza di questa vecchia scuola superiore, dal solaio alle cantine. Ho issato la bandiera americana in ogni ricorrenza per due trimestri sul tetto della scuola. Poi, solo per il piacere di farlo, concediti un giro attorno all’isolato e osserva tutte le finestre dal pianterreno all’ultimo, e rifletti sul fatto che io le ho lavate tutte, un tempo».

Andrea Ingrosso

Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.

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