Da governante a primo finanziatore della Lego.
Storie, non storytelling.
Seconda puntata.
«Cercasi ragazza profondamente credente, brava a cucinare, in grado di occuparsi di tutti i lavori di casa…». Proprio il giorno prima era stata scartata per un posto di direttrice alla catena di negozi Saponi e profumi Tatol. A casa di un’amica c’era andata per dimenticare la delusione. In attesa che venisse pronto il caffè stava sfogliando il quotidiano di Copenaghen Kristeligt Dagblad, quando lo sguardo di Sofie Jørgensen si fermò su quelle parole. Il titolo dell’annuncio era promettente: Governante. Mai avrebbe immaginato che, per un colpo di fulmine, si trasformasse in una promessa di matrimonio.
Chi lavorava con il legno aveva come nemico i fulmini. Agosto era il mese in cui davano maggiore spettacolo: uno dei tanti che saettavano dal cielo grigio in quell’estate del 1927 cadde sull’officina di Ole Kirk Christiansen. Le fiamme divamparono in un baleno. Le colonne di fumo che si stavano alzando sotto i suoi occhi erano la sintesi di quello che stava bruciando: macchine, arredi, semilavorati. In cifre 45 mila corone di danni e un’azienda azzerata al suolo. Eppure, per chi avrebbe inventato il gioco di costruzioni più famoso al mondo, ricostruire non sarebbe stato un dramma: era solo un pezzo della trama da incastrare ad altri pezzi in quella drammaturgia che lo avrebbe messo di fronte a tanti punti di svolta, come questo.
La falegnameria che Ole Kirk rimise in piedi a Billund era attrezzata con sega a nastro, perforatrice, piallatrice e fresatrice collegate attraverso lunghe cinghie di trasmissione al grande albero a soffitto. Quando per l’operaio e l’apprendista che aveva alle dipendenze le commesse erano troppe, assumeva a chiamata gli artigiani della zona. Li pagava 1 corona e 18 øre all’ora. Sul pavimento lasciavano i resti del loro lavoro: una coltre di trucioli e lana di legno. In magazzino invece depositavano i risultati di quegli scarti: porte, infissi, mobili da cucina, bare, casse, armadi, cassettiere, scale, panchetti, sgabelli da mungitura e assi da stiro. Della loro qualità un giorno se ne accorse il venditore della Fredericia Furniture A/S. Per Jens V. Olesen quei prodotti avrebbero fatto bella figura nelle vetrine dei clienti dell’azienda, eppure ai dirigenti non passarono inosservate le macchinine in legno verniciate in tanti colori. Olesen gliene ordinò una partita per rifornire i negozi di campagna. Nonostante, in quella primavera del 1932, gli effetti della Grande Depressione si facevano ancora sentire, non era accettabile che a pagarne le conseguenze fossero proprio i bambini.
Per avviare la produzione chiese un prestito ai suoi fratelli che avrebbe restituito solo dopo dieci anni. Su quella nuova produzione sorvolava l’indifferenza del paese e lo scetticismo della famiglia che etichettava come un declassamento il passaggio dall’utilità dei prodotti per la casa alla futilità dei giochi in legno. Ma ci voleva ben altro per scoraggiare un uomo come Ole Kirk che combinava la fiducia nelle proprie capacità con la fede in Dio. «Pregavo che arrivassero gli ordini, di riuscire a consegnare in tempo i prodotti, pregavo di essere pagato».
La fiducia invece era più consistente della preghiera. Si trattava di caricare nella vecchia Ford T i prodotti rimasti invenduti sotto la polvere del magazzino, di mettersi in strada con un itinerario e, negozio dopo negozio, svuotare il bagagliaio. A volte intascava il prezzo, a volte concedeva uno sconto, altre volte accettava un baratto: mandorle con buccia, sago e uvetta, ma con quelle entrate poteva tenere in piedi la famiglia, non la fabbrica. Sui suoi conti pesava una fideiussione per un lavoro di edilizia che non si sarebbe mai concluso, perché gli altri fideiussori non rispettarono l’impegno e all’unico rimasto pignorarono le proprietà e i beni in magazzino. Ole Kirk sembrava deciso questa volta a gettare la spugna. Anche perché alle sventure societarie si aggiunsero le disgrazie familiari.
Kristine era lo specchio della casa e il faro per i loro quattro figli. La morte prematura a quarant’anni per le conseguenze di un aborto lasciò un vuoto pieno di sofferenza in tutti i membri della famiglia. Eppure, qualcuno prima o dopo avrebbe dovuto prendere il suo posto – almeno come governante – nella gestione della casa e nell’educazione di Johannes, Godtfred, Gerhardt e Karl Georg. Tra le candidature arrivate a seguito dell’annuncio, quella di Sofie Jørgensen era riuscita a farsi breccia nelle intenzioni di Ole Kirk. Non era difficile prevedere che avrebbe legato con i suoi figli, ma che tra loro due si potesse creare un legame sentimentale era un’ipotesi lontana da qualsiasi tipo di immaginazione. Per non parlare di quel retroscena che legava Sofie alla Lego e che Ole Kirk spesso avrebbe reso pubblico negli anni successivi allo scopo di ricordare grazie a chi era partito per arrivare dove sarebbe arrivato. «Se Sofie non fosse giunta a Billund, Lego non sarebbe mai esistita».
Le 1000 corone danesi, che Sofie portò in famiglia con il matrimonio nel marzo del 1934, salvarono il marito dal fallimento. Una parte del denaro Ole Kirk la utilizzò per saldare il debito più grosso che aveva, l’altra la gettò nelle fondamenta su cui avrebbe costruito la nuova società. Trævare & Legetøjsfabrik era troppo lungo e complicato per pretendere che la memoria di qualunque persona lo ricordasse. Ci voleva un nome breve e agile che saltasse in mente con facilità a tutti: due consonanti alternate a due vocali estratte dalla locuzione leg godt. Del suo significato “Gioca bene” in lingua danese, Lego sembrava giocarsi bene le proprie carte. Non solo all’inizio Ole Kirk aveva giocato bene con la proprietà, intestandola a Sofie per liberare l’azienda dall’obbligo di saldare i debiti contratti in precedenza. Ora giocava bene anche nella strategia dei prodotti: un’anatra semi-meccanica che faceva qua-qua, un trenino rosso, passeggini per le bambole, giochi da spiaggia, animali con ruote, alianti, camion dei pompieri con la scaletta e tante tante macchinine. «Solo il meglio è abbastanza quando i clienti sono i bambini».
Nel 1944 il meglio per Lego invece era darsi un nuovo assetto societario. Per la Legetøjsfabrikken LEGO, billund A/S la prospettiva di diventare società per azioni, quotarsi in Borsa con 50 mila corone di capitale e potere quindi autofinanziarsi aveva un solo scopo. Evitare che la Vejle Bank chiamasse l’ufficio contabile per dire: «Ora basta. Basta emettere assegni scoperti». Una volta invece scoperta la plastica gli assegni si sarebbero staccati dal libretto con coperture garantite per dieci, venti, trent’anni. Nel Dopoguerra sarebbe diventata la materia prima del futuro e un imprenditore coraggioso come Ole Kirk non avrebbe avuto tentennamenti a preferirla al legno.
All’interno erano cavi e con bottoncini per l’incastro sulla parte superiore. Non dovevano essere levigati, fresati, verniciati e congiunti da viti e chiodi. Con 50 pezzi un bambino poteva fare le stesse costruzioni di un artigiano in scala ridotta. Avrebbero costituito la scalata della Lego verso la conquista dei mercati in tutto il mondo. A scovarli alla British Industries Fair di Londra era stato l’amministratore delegato della Hoffmann & Co. Il signor Printz aveva venduto a Ole Kirk la pressa a iniezione Windsor SH 3 a un prezzo superiore alla metà dell’utile di esercizio della Lego. Quelle 30 mila corone secondo il figlio Godtfred avrebbero pesato come un dannato diavolo nel bilancio dell’azienda, ma c’era la polizza della fede cristiana che metteva Ole Kirk al sicuro: «Io ho chiesto a Dio, e io ho fede in quei mattoncini».
Sembravano tanti piccoli sassi colorati. Riversati da un deposito di stoccaggio dentro una pressa, fondevano a duecento gradi. 100 atmosfere di pressione iniettavano il liquido nello stampo. I mattoncini uscivano essiccati, e pronti per l’uso, a una velocità di 100 pezzi all’ora. Per uno come Godtfred che aveva sempre parteggiato per l’odore saturo dei trucioli di legno artigianale, ora quel sentore dolciastro di plastica industriale iniziava a fargli effetto. L’idea, che di lì a poco si sarebbe insinuata nella sua mente e poi nel mercato, era il passaggio strategico per la Lego da gioco pensato come fine a sé stesso a gioco inteso come sistema. Più mattoncini valevano più costruzioni, più costruzioni valevano più confezioni, più confezioni valevano più fatturato. Il valore a quel sistema lo trasmettevano i mattoncini: del tutto compatibili e funzionanti anche se provenienti da confezioni diverse. Indurre i bambini a collezionarli avrebbe stimolato la loro immaginazione a esprimersi con creatività e spinto Lego ad aumentare la produttività. L’effetto dell’acquisto di quel diavolo di pressa a iniezione, tanto osteggiato nel 1946 da Godtfred, fu che dodici anni dopo avrebbe moltiplicato a 50 il numero di esemplari in funzione a Billund.
Ora che sull’azienda le visioni di padre e figlio sembravano combaciare, erano invece i mattoncini a non incastrarsi alla perfezione. Una dopo l’altra fioccavano le lamentele dei clienti: componevano la costruzione, ma i mattoncini non ne volevano sapere di stare insieme. In azienda non era una novità: aleggiava come un fantasma nelle riunioni, ma il problema non veniva mai messo sul tavolo della discussione. Si trattava di una questione di geometria solida: tre cilindri nel volume vuoto del parallelepipedo, tre tubi nella cavità interna del mattoncino. In ogni incastro avrebbero tenuto unita la costruzione come se fosse un pezzo unico e, quando serviva, ogni pezzo si sarebbe staccato dall’altro senza fatica. Con la soluzione che Godtfred aveva disegnato sul foglio, Lego sarebbe diventato un classico del gioco: un prodotto senza tempo che non avrebbe più avuto bisogno di innovazioni. Alle 13.58 del 28 gennaio 1958, Godtfred depositava all’ufficio di Copenaghen il brevetto del mattoncino che ancora oggi vediamo nelle confezioni della Lego.
Ma a Billund le scrivanie erano piene di soluzioni in attesa della consacrazione all’Ufficio Brevetti, oltre che dal mercato. Nessuno per dodici anni aveva pensato che lo schizzo delle ruote in gomma da 2x2 bottoncini, dimenticate nel cassetto del falegname modellista Knud Møller, potessero registrare nel 1970 un primato di vendite. Anche il nuovo tipo di mattoncini sottili – alti un terzo di quelli tradizionali – avrebbero arricchito la varietà di pezzi del Sistema Lego, regalando ai bambini tante nuove possibilità di costruzioni: aerei, navi, automobili, razzi e persino trenini elettrici. La scatola conteneva il motore da 4,5 Volt e i pezzi per costruire la locomotiva, il vagone postale, le carrozze passeggeri e il circuito delle rotaie. Nel 1966 il prodotto vendette un milione di confezioni e negli anni Settanta gli elementi vennero adattati, diversificando i nomi delle destinazioni geografiche del treno a seconda dei mercati in cui veniva venduto.
Messa su quel binario l’azienda sarebbe giunta nel 1979 alla stazione della terza generazione. Sotto la guida di Kield Kirk Kristiansen il nome Lego sarebbe diventato il vertice di una struttura di prodotti composita: Duplo, Fabuland, Legoland, Lego City, Lego Castle, Lego Space, Lego Tech. L’assortimento, secondo il figlio di Godtfred, avrebbe offerto ai clienti la più ampia scelta mai vista nel settore e ai dipendenti la prospettiva di una crescita inarrestabile perché «abbiamo il migliore giocattolo al mondo prodotto dalla migliore azienda di giocattoli del mondo».