Le scosse di Alda Merini.

La sveglia è alle 5 del mattino. Il freddo stanzone le aspetta tutte allineate sulle pancacce. Una premorfina e poi il curaro per evitare che gli arti impazziscano anche loro durante la scarica elettrica. L’attesa è rivoltante come in tutte le anticamere: molte piangono, alcune pisciano per terra.

Le loro facce sono mostruose. Hanno perso ogni tratto femminile da quanto sono piene chi di Serenase, chi di Dobren, chi di Leptozinal, chi di Pentothal, chi di Largactil, i farmaci più muscolosi che la chimica possa allenare nei suoi laboratori. Scorrono dentro corpi di 30 chili coperti da camicioni di lino grezzo. Fanno la loro comparsa solo larghe chiazze di vino sul viso, unghie adunche tra le dita, un ghigno feroce tra le labbra.

In manicomio nessuno ha voglia di farsi bello. Così, ogni tanto la pulizia diventa coercitiva. Davanti al lavello comune, robuste infermiere le insaponano anche nelle parti più intime. E poi le asciugano con un lenzuolo lercio e puzzolente.

Per protesta un giorno Alda prende per la gola la caposala e quel giorno è un giorno da primati. Per prima viene sottoposta all’elettroshock e senza anestesia preliminare. Farle sentire ogni cosa è la punizione. Ciò che sente quel giorno lo sentirà per il resto della sua vita.

Eppure, sentire è quello che fa per tutta la vita. Perché per innamorarsi e per scrivere, quello bisogna fare: sentire. Sentire quello che bisogna mettere nel cuore di qualcuno. Sentire quello che bisogna mettere nelle parole di qualche libro. Alla fine, di libri ne scrive tanti e di amori ne vive forse troppi.

Le donne da una parte, gli uomini dall’altra: una segregazione per una come Alda che ha bisogno delle scosse di un uomo. Così, un giorno entra nel padiglione femminile Pierre, e se ne innamora. Tra loro iniziano brevi incontri senza amplessi, ma con tanti sorrisi da dietro i vetri, frasi approssimative, sguardi dolci, margherite, Giulietta e Romeo.

Tutta un’altra atmosfera rispetto all’aria che tira di notte nelle camerate: grida, invettive, sussulti, miagolii. È la bipolarità delle 24 ore dentro un manicomio. I farmaci sono o troppo tenui o del tutto sbagliati: nessuna riesce a dormire. Così, per punizione le infermiere le mandano a letto con le fascette: i loro piedi e le loro mani legate con grosse corde di canapa per impedire che scendano dal letto.

Non è così il letto di Alda quando le portano la quarta figlia appena nata. Finché i figli li porta in grembo tutto si deposita nel suo posto, in una scenografia dall’apparente normalità. Ma dopo che li ha messi al mondo cambia l’atto e quindi anche la scena: tornano le allucinazioni e tutto dentro di lei si scuote. Per questo è costretta ad affidarli ad altri, mentre lei si rimette alle sue voglie.

Un’infermiera compiacente le passa ogni tanto batuffoli imbevuti di alcool: odorarli le dà sollievo. Ma l’attesa della quarta gravidanza non è dolce tra maltrattamenti e la depressione sempre dietro l’angolo. Così, un giorno dà fuoco a un batuffolo: vuole incendiare l’ospedale.

Dal Pini la trasferiscono al Niguarda: vogliono forzare il parto, ma per Alda non è ancora giunto il momento. La suora insiste, così Alda raccoglie la sua roba e per salvare la bambina fugge. Non fa molta strada: le corrono dietro, la prendono e la portano al neurodeliri. Una cella buia di pochi metri quadrati accoglie lei e la creatura che sta per venire alla luce. Ma quella luce per Alda si spegne subito: gliela tolgono dalle braccia dopo il parto e per parecchi giorni non ne sa più nulla.

«O tu mi dai mia figlia, o io ti ammazzo». È l’unico vero momento di pazzia che Alda riconosce in tutta la sua vita quando quel giorno entra con il seno pieno di latte nella stanza del primario. Perché quando il malato viene internato in un manicomio sente sopra di sé il peso della condanna. Alda ne subisce 24, tanti sono i ricoveri che la riportano ogni volta in ospedale dopo i tentativi di dimetterla.

La gente orina e defeca per terra. Si strappa i capelli, si lacera i vestiti, canta canzoni sporche. Ogni volta la sua paura è diventare come quelle là. Ogni volta come la prima volta. Due figlie e qualche esperienza sulle spalle è tutto quello che Alda ha quando viene internata a sua insaputa all’Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano.

È il 1962. Dà ripetizioni a qualche alunno e ogni tanto dà segni di stanchezza. Ne parla con suo marito, ma non la comprende. Un giorno dà in escandescenza: gli lancia una sedia e lui chiama l’ambulanza. La legge all’epoca dà al marito il diritto di prendere decisioni che riguardano la moglie: la donna è assoggettata all’uomo.

Così, inizia per Alda un processo durato 10 anni, in un labirinto dove si alzano muri e si abbassano sbarre. Urla, scalcia, invoca i suoi figli, viene legata e riempita di calmanti. La sua ribellione è scambiata per insubordinazione. Dopo qualche giorno suo marito va a prenderla, ma anche lui diventa il suo giustiziere. «La bimba non so di chi sia. Quindi, portala al brefotrofio». Per Alda è la sentenza definitiva. Prende la piccola, la raccomanda a un medico e si riconsegna al manicomio, decisa a trascorrere lì il resto dei suoi giorni.

«Quella macchina è per te. Per quando avrai voglia di dire le tue cose». È così che il dottor Gabrici la accoglie al suo ritorno. Imbarazzata e confusa preme su tasti e con stupore riscopre chi è nel suo nome. Alda Merini da quel giorno – per sua e nostra fortuna – inizia a scrivere.

Andrea Ingrosso

Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.

© 2021 Mamy

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