Sull'orlo della vita
di Diego Armando Maradona.

«Se vuoi tornare al top dobbiamo ricominciare dal fondo». Per Fernando Signorini il fondo era una fattoria dispersa nella pampa argentina dove l’acqua calda si contava a gocce e il televisore funzionava a colpi. Il suo obiettivo era toglierlo dalle comodità del lusso per catapultarlo nella realtà della sua povera infanzia di Villa Fiorito. L’ultima stagione giocata a Siviglia glielo aveva restituito con addosso 92 chili. Per il preparatore atletico sarebbe bastato scendere a 77 in vista dei Mondiali, ma qualcuno nel Clan non era d’accordo.

Daniel Cerrini ci era entrato con fantomatici titoli di dietista e non ci aveva messo molto a farsi spazio con il suo metodo di farmaci dimagranti. Fu così che Maradona passò dal volto gonfio come un pallone alla faccia scavata fino alle ossa. Chilo più, chilo meno la questione sul tavolo degli uomini del brand era però il che cosa: che Maradona giocasse i Campionati del Mondo di calcio negli Stati Uniti. Ma prima bisognava trovargli una squadra di club. Joseph Blatter prese l’incarico di seguire la trattativa tra Napoli e Siviglia di persona affinché andasse in porto per 10 miliardi di lire.

Per avere un’idea di che cosa Blatter si aspettava di innescare con Maradona ai Mondiali del 1994 bastava vedere che cosa successe all’arrivo del giocatore a Siviglia. La vendita degli abbonamenti arrivò a cifre mai viste prima nella storia della società spagnola: in 4 giorni incassò più di 4 miliardi al botteghino. Visti gli interessi economici che aveva in ballo negli Stati Uniti, il come Maradona avrebbe raggiunto la forma necessaria a scendere in campo, per la Fifa contava poco.

Un cocktail di farmaci lo aspettava prima della partita contro la Nigeria. Egfedrina, metefredina, fenilpropanolamina, norefedrina: il 25 giugno 1994 le sostanze furono intercettate dai test di laboratorio dell’antidoping mentre galleggiavano nel campione di urina. Gli uomini del brand avrebbero dovuto formare un’équipe per prendersi cura del prodotto invece facevano a gara per prendersi tutto quello che il prodotto riusciva a produrre. Chi dimostrò invece di prendersene cura fu un avversario, ma solo perché in gioco c’erano gli interessi di campo, il Camp Nou di Barcellona.

È il dodicesimo del secondo tempo. La palla è nella tre quarti. Maradona la controlla con il suo prodotto di punta, quando Andoni Goikoetxea entra a gamba tesa e glielo spezza in 3 punti. L’intervento passerà alla storia come uno dei falli più brutali della storia del calcio e il difensore passerà alla ribalta come il macellaio di Bilbao. Quella caviglia era il core business del prodotto Maradona. La sua capacità di ruotarla come nessun altro essere umano può fare con la propria rendeva quel prodotto competitivo nel mercato di ogni partita. Ricomposta da un chirurgo e – come un vero prodotto – tenuta insieme da una vite, avrebbe permesso al giocatore di presentarsi ancora per molti anni in campo per la produzione del suo spettacolo.

La sede della Maradona Productions si trovava in uno dei palazzi più lussuosi di Barcellona. Jorge Cyterszpiler lo aveva riempito di contabili e di segretarie per tenere alla larga il fisco e i magistrati. Puma, Coca-Cola, McDonald’s, Agfa: i brand facevano la fila fuori della porta degli uffici e al castello di Pedralbes – dove Maradona abitava – un’altra fila si riempiva di fratelli, sorelle, cugini, amici, conoscenti, fidanzate, amanti, consulenti, consiglieri. «La solitudine mi fa cagare addosso», ma intanto tutta quella gente che dichiarava di volere stare al suo fianco, alla fine dimostrava di volere solo vivere alle sue spalle. Iniziò a sospettarlo quando una telefonata da Buenos Aires lo informò che la Maradona Productions era sull’orlo della bancarotta.

A parte gli allenamenti, se ne stava tutto il giorno in camera con le persiane abbassate a guardare la televisione mentre i tifosi si arrampicavano sugli alberi per sbirciare tra le finestre e cogliere un pezzo di quella vita che iniziava ad andare in frantumi. «La gente non mi lascia fare una vita normale». La solitudine lo faceva cagare sotto, ma la popolarità lo rendeva stitico verso la vita sociale. Eppure, il suo nome era impresso su prodotti di ogni genere.

Prestò la sua fila di denti alla pubblicità di uno spazzolino, le sue guance ai saponi detergenti, la sua pelle ad altri prodotti cosmetici. Anche sulla copertina di un quaderno furono stampate quelle 8 lettere: Maradona. Un bambolotto invece prese il diminutivo di Dieguito, ma l’uomo, più che il giocatore, disse no a una marca di sigarette e alla pubblicità di un vino, secondo lo schema di gioco di un’etica che avrebbe poi perso nella partita contro sé stesso mentre continuava a vincere quella contro gli avversari. La missione scritta nello statuto della società era di prendere la fetta più grossa nella torta generata dall’immagine del giocatore. Uno schema di business che poi avrebbe fatto la fortuna di una generazione di calciatori: costruire su due piedi di talento un brand con i diritti d’immagine.

Ma quando nella primavera del 1984 Jorge Cyterszpiler arrivò in città per il trasferimento del giocatore dal Barcellona, il manager di Diego Maradona capì che i mercati non sono tutti uguali. C’è il resto del mondo e poi c’è Napoli. Sul ciglio della strada c’era un venditore ambulante con una bancarella che esponeva una dozzina di cassetta musicali con il marchio Maradona. La canzone che contenevano sarebbe diventata la Hit allo stadio San Paolo. A un semaforo pochi chilometri più avanti un ragazzo vendeva stecche di Marlboro strillando lo slogan: «Sigarette Maradona, due al prezzo di una». Quando Cyterszpiler si avvicinò per chiedergli perché lo facesse, il ragazzo rispose: «Così, ne vendo di più». Quel giorno capì che i brand non sono tutti uguali. Ci sono le Marlboro e poi c’è Maradona.

Quando Cyterszpiler minacciò di denunciare la vendita illegale di prodotti con marchio Maradona qualcuno lo contattò e gli fece capire che – farlo, a Napoli – non sarebbe stata una buona idea. Anche se il brand è stato costruito per controllare il prodotto, a Napoli c’era un’entità che – a suo modo – avrebbe controllato il brand. Alla fine, Jorge Cyterszpiler mantenne il controllo della società, ma perse quello del merchandising. «Sono contentissimo se i commercianti di Napoli riescono a campare grazie al mio nome e alla mia faccia».

Oltre agli infortuni finanziari e di marketing c’erano da curare anche quelli sul campo. Come a Barcellona, Maradona si rifiutava di sottoporsi alle cure dello staff medico della società. Quando a causa della caviglia spezzata non riusciva a stare in piedi, due giorni prima delle partite chiamava il suo medico di fiducia. Si infilava una rivista tra i denti stretti, mentre il dottor Ruben Oliva gli infilava un’enorme siringa nel prodotto. Per la psicologia di Maradona sarebbe stata una provvidenziale trasfusione di sostanze stupefacenti visto che riuscivano a rimetterlo in piedi dopo poche ore. Per la scienza medica del dottor Oliva era solo un po’ di acqua.

Come l’acqua, a Napoli la droga era ovunque: una tubatura collegata alla casa di Maradona la faceva scorrere a fiumi. A Buenos Aires lo accertò anche la polizia quando il 26 aprile 1991 fece irruzione in una casa e trovò Maradona disteso a letto con diversi grammi di cocaina attorno. Dal carcere uscì 48 ore dopo con il pagamento di una cauzione, ma in casa sua entrarono due psicologi scelti come cecchini per rovistare nella sua infanzia, tra le sue paure e portarlo lontano dall’orlo della vita dove era finito. Eppure, per uno che nella vita si era ribellato a tutto e a tutti – contratti, sponsor, allenatori, tifosi, avversari, presidenti, manager, giornalisti – farlo con due professionisti della psiche sarebbe stato come calciare una punizione dal limite. Smise di presentarsi alle loro sedute per tornare a sedute a lui più familiari. Anche se la squalifica di 15 mesi per la positività all’antidoping non l’aveva ancora scontata del tutto, tornare ad allenarsi per partecipare a un torneo di dilettanti lo avrebbe fatto sentire quello che in fondo era.

«Posso dire di non avere mai fatto male a nessuno se non a me stesso, e di non dovere nulla a nessuno se non alla mia famiglia». Non erano le parole di un brand e nemmeno quelle di un prodotto. Erano le parole di un uomo che – nel bene e nel male – sarebbe rimasto sull’orlo della vita fino alla sua morte.

Andrea Ingrosso

Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.

© 2022 Mamy

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