Salvador Dalí,
la solitudine del numero 1.

C’è una scala di pietra nel collegio dei Padri Maristi a Figueras. Lui ha 16 anni e un’idea in testa: buttarsi. Più di un tentativo va vuoto prima che un giorno, spinto da un moto di lucidità, lo fa. Si getta nel vuoto. Rimbalza da un gradino all’altro, sbatte a destra e a sinistra, prende velocità e precipita. In fondo alla scala arriva diviso a metà. Da una parte il suo corpo ricoperto di contusioni e graffi, dall’altra il suo ego ricoperto di attenzione e sguardi. Il dolore soccombe al piacere.

Ripete il gesto più volte nel corso dell’anno, e ogni volta si sente preso di mira dall’attesa di tutti per la sua impresa. Chi gioca smette di giocare, chi parla cessa di parlare, chi cammina tutto d’un tratto non cammina più. Quei ragazzi di Figueras si fermano per lui e da lui si aspettano quello che solo lui può fare. Avrebbe rifiutato il posto se gli avessero offerto di scambiare il suo con quello di Dio. Per lui, lui era già Dio.

A 6 anni vuole fare il cuoco. A 10, Napoleone. Fino a 8 anni bagna il letto per puro divertimento. In famiglia fa quello che vuole, come un dittatore. All’Accademia fa il contrario degli altri e meglio dei suoi insegnanti: durante l’esame di Storia dell’arte dichiara di essere più intelligente dei suoi tre esaminatori. Viene espulso.

Il bambino-re diventa anarchico, si oppone a tutto e fa il contrario di tutto. Lo fa con coscienza. Basta che qualcuno dica bianco perché lui ribatta nero. A scuola diventa aggressivo contro chiunque minaccia la sua solitudine. Chi tenta di avvicinarsi viene messo in fuga dalla sua occhiata carica di odio. Così, durante le ricreazioni si immerge nel suo mondo e da lì si ricrea. Solo il mondo femminile riesce a fare breccia e ad accompagnare le sue evasioni.

Ma sono latitanze di breve durata. La ragione lo riacciuffa e lo rinchiude nel silenzio della lettura: in due anni legge tutta la biblioteca del padre. «Non si ferma mai, non si diverte mai» – osserva chi l’ha messo al mondo. Lo esortano ad approfittare della sua gioventù, ma lui fa l’unica cosa che sa fare: il contrario. E davanti allo specchio si consola a modo suo: «Affrettati a invecchiare, sei così orribilmente acerbo, così orribilmente amaro».

Così, sfugge alla dolcezza delle ragazze: le considera il peggiore pericolo per la sua anima tanto sensibile all’animalità della carne. Dalla sua testa tira fuori un piano e dal suo cuore la necessaria dose di ragione per realizzarlo. Una malafede assoluta combinata a una gesuitica raffinatezza: è così che alla fine si ritrova sempre innamorato. Sa di non amarle e loro sono consapevoli di non essere amate. Capisce che amare davvero è l’annullamento dell’ego. È l’impossibilità di prevedere. «Non amerò mai nessuna ragazza. Vivrò sempre solo». E chi vive solo per sé stesso siede tra i banchi dell’opposizione.

«Se decidi di lanciarti in guerra per stabilire la tua supremazia devi iniziare a distruggere quanti ti sono più prossimi e affini. Ogni alleanza ti spersonalizzerà. Tutto quello che conduce al collettivismo ti condurrà alla morte. Servitene come esperimento, e poi scatta, e rimani solo».

Un giorno disegna un paio di bilance, quando invece il professore dell’Accademia di belle arti a Madrid gli aveva assegnato il compito di dipingere una statua gotica della Vergine. «Dovete dipingere quello che vedete» – gli raccomanda. «Forse lei vede una Vergine, come tutti gli altri. Ma io vedo invece un paio di bilance». E così che inizia a tratteggiare la sua frattura con il mondo.

In casa invece continuano ad assecondarlo. «Tesoro, che cosa desideri? Tesoro, che cosa potrebbe farti piacere?» Lui chiede una delle due stanze per il bucato. Dentro la vasca mette una seggiola. Il piano di legno delle lavandaie diventa il suo tavolo di lavoro. E con l’acqua che lo ricopre fino alla vita inizia a disegnare. Da nudo contempla i nudi che porta lì, nel suo lavatoio-soffitta.

È lì che si rinchiude ogni volta al ritorno dal corso di lezioni sul chiaroscuro. Con le guance accese dalle ambizioni artistiche si abbandona alla cosa. Il piacere lo porta a studiare un gioco dilatatorio per allungare gli intervalli tra una cosa e l’altra. «Sarà l’ultima volta» – si dice, ma sa bene che di volta in volta non si asterrà mai da quella perfezione.

«Sebbene il disegno non abbia le dimensioni prescritte dal regolamento, è così perfetto che la commissione lo accetta, approvandolo». Per essere ammesso all’Accademia delle Belle arti di Madrid deve copiare un disegno: il Bacco di Jacopo Sansovino. Ha 6 giorni per farlo. Il talento non osserva il regolamento e fa quello che nessuno è capace di fare. Nelle dimensioni della figura: molto piccola. Nella perfezione della figura: molto grande.

È ancora piccolo invece quando i genitori gli insegnano due cose: l’alfabeto e il modo di scrivere il suo nome. Con quelle 8 lettere addosso Salvador si sente chiamato a salvare il mondo dalla vacuità dell’arte moderna. Da lì al suo destino il passo sarà breve.

Il Camembert è l’ultima portata. La mollezza della sua pasta gli suggerisce meditazioni filosofiche sulla mollezza. Gli amici se ne vanno e lui resta solo. C’è il quadro di un paesaggio nel suo studio: sullo sfondo un albero di olivo con i rami tagliati e senza foglie. Quella tela appena abbozzata sembra aspettare l’idea del genio. E pochi istanti prima di spegnere la luce per andare a letto vede due orologi molli che pendono dai rami tagliati. Passa tutta la notte a dipingerli. Da quel giorno il mondo inizia a condividere la solitudine del numero 1.

Andrea Ingrosso

Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.

© 2022 Mamy

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